Recensione di Francesca Andreini
Leggendo, ho seguito Clara in dodici luoghi. Luoghi della memoria, della fantasia, della mitologia familiare. Di dolore, di amore, di consapevolezza. Dodici luoghi della mente dove non si vorrebbe andare, perché si temono i percorsi intensi, impervi, le sorprese e le rivolte della propria psiche. Posti che stanno nel nostro cuore, anima, subconscio o comunque si voglia chiamare quell’ambiente nel quale continua per sempre a sobbollire la lava del passato, il fuoco dove si gettano gli eventi presenti per poi sfrigolare nuovi significati, nuovi concetti e sentimenti trasformati.
Questo è il viaggio nei dodici posti del libro. Una rilettura del presente attraverso il filtro del passato. Un filtro affascinante, quasi magico, che sa far emergere i significati più reconditi, gli aspetti celati eppure essenziali di una vicenda. Come il musicista americano che ha studiato musica rinascimentale a Roma, ospite di casa Cerri. Cosa lo tormentava? Cosa cercava nella fuga dagli Stati Uniti e dalla celebrità? Quale vuoto doveva colmare la sua partecipazione nel coro dello zio della scrittrice? Era un vuoto che poteva essere colmato?
La risposta sta nel salto metaforico e reale compiuto dal cantante. Il salto nell’annullamento di sé, che non porta però il nirvana desiderato ma una nuova dimensione, un nuovo dolore, una nuova coscienza. La vicenda è narrata da tanti punti di vista. Da voci totalmente diverse, che ci restituiscono le varie personalità con un un abilissimo gioco di mimesi. La narrazione che divaga verso personaggi apparentemente lontani, vicende apparentemente slegate, è una narrazione che rende conto della complessità di un gesto, di un periodo di vita, di una fase della personalità. E si riflette poi all’infinito rivelando la complessità di tutti i personaggi che parlano di questa storia. Apparentemente per ricostruirne la vicenda. Ma finendo poi con creare tanti mondi a loro volta complessi e sfaccettati, che per di più si rimandano l’un l’altro in uno straordinario gioco di specchi.
Chi ha raccolto il musicista nella fase più dura della sua disperazione? Elisabetta la prostituta, la donna che lo ha accolto brevemente e subito respinto, o meglio, ignorato. Finendo di spingerlo, forse, a tentare il gesto estremo. Ma chi è Elisabetta? Un’abitante del luoghi dove tutto ha origine e torna. Piazza Vittorio, una certa Roma vecchia e sempre presente, antica, popolare, eterna nella sua stanca consapevolezza del male. Eppure eternamente bella, materna, portatrice di vita. Studiata e immortalata dal giovane pittore americano anch’egli imparentato con la scrittrice. E anch’egli coinvolto nella ricostruzione delle vicende drammatiche legate al musicista che ha tentato il suicidio. Come il socio del cantante americano, amico di un tempo. Intervistato e condotto a passeggio nei luoghi dove il passato ha marcato la vita dell’amico. Dove sono state vissute le vicende più liete e più angoscianti.
In questo passeggiare fra luoghi e tempi emergono anche alcune figure della famiglia Cerri, bravate di gioventù, la ricostruzione di una morte, la narrazione di un sogno, la visita ad un’amica che riversa nella storia d’amore di alcuni diari trovati per caso le proprie frustrazioni e il proprio sogno di libertà.
Tanta varietà e ricchezza di situazioni, di personaggi, che pure trova alla fine una sua spiegazione, una sua ragion d’essere. Ecco da dove veniva questo personaggio… e questo ricordo, questa scena! Un gioco sapiente della scrittrice ci regala un processo all’indietro; ci rivela, nelle ultime pagine, il materiale originario e scarno da cui poi è scaturito tutto. Facendoci assistere quasi ad un esperimento sulla nascita della scrittura, la rielaborazione in chiave letteraria dei fatti.
Così, con stupore e un piacere quasi voyeuristico osserviamo quelle poche giornate, quelle frasi e gesti da cui lei ha saputo ricavare un materiale ricco, magmatico, incandescente di sentimenti, humour, illuminazioni.
“Vorresti che Giuseppe ti amasse come tu lo ami, che ti facesse sentire in diritto di vivere? Ma lui è solo quello che è, il frutto del suo destino. Come mio figlio. Non c’è un altro Giovanni sano e intatto sotto la malattia. Non c’è un altro Giuseppe. Sai qual è il mio rimorso peggiore, quando mi guardo indietro? Non aver amato di più mio figlio quando non mi sembrava nemmeno umano” – dice Clara all’amica. Ed è una delle tante frasi che continuano a risuonare nella mente del lettore alla fine del libro. Uno dei tanti passaggi che si torna indietro a leggere, perché non si vuole lasciare il viaggio. Si vuole ancora che la voce sapiente, divertente, leggera e mutevole di Clara ci porti a spasso in quei dodici posti dove non voleva andare, ma dove siamo felici che ci abbia portato.