BENJAMIN CONTRO ABETE
Per molti anni, tutto fila liscio. Io, piccola, aspetto chiusa in camera coi miei cuginetti. E insieme a loro mi godo l’attesa con i suoi fruscii misteriosi, tintinnii di bicchieri, mormorii smorzati…
Poi, insieme, sfiliamo fuori. Siamo nel corridoio in penombra, poi nel salotto buio con la finestra spalancata per far entrare Babbo Natale. Intorno a noi la filodiffusione riversa Tu scendi dalle stelle, mentre le lucine rivelano a intermittenza gli aghi dell’abete altissimo e profumato. Dentro il presepe, le facce preoccupate di Giuseppe e Maria si chinano su un faretto fioco.
“Chiudete, che sennò si ammalano!”
La finestra viene chiusa, inizia la distribuzione. Tutti seduti in cerchio, in silenzio, ad aspettare, pregando.
“Gesù bambino, sono stata buona buona. Fa’ che i regali mosci con dentro i vestiti vadano tutti ai cuginetti e quelli grandi coi giocattoli a me…”
Equanime come da tradizione, Gesù ne distribuisce un po’ per uno, accontentando e scontentando un po’ tutti. E noi ce li portiamo via stringendo in mano i bigliettini che li accompagnavano, con gli auguri di babbo Natale a noi bimbi buoni.
A me sembra di averlo un po’ fregato, il vecchio, perché mica sono stata poi così buona… pure Gesù se n’è accorto e infatti qualche pantalone di flanella e qualche sciarpa di lana me l’ha rifilati.
Dopo la distribuzione, ci godiamo un’altra sorpresa: l’albero e le decorazioni in giro per casa. E chi ci ha fatto caso, prima? Ma ora, con i regali già aperti e impilati in un angolo sì, guardiamo gli angioletti di garza, le palle di ogni grandezza, i festoni sopra la porta… gli zii e le zie già un po’ brilli che si baciano sotto il vischio.
Poi arriva un altro regalo: il pranzo di Natale. Che da noi è la sera e allora mangiamo e beviamo fino a ore normalmente proibite. Noi bambini ci abbuffiamo ridendo, muovendoci veloci lungo il tavolo per sfuggire al controllo dell’unico parente ansiogeno: “ma quanti bignè stanno mangiando i ragazzi?”.
E insomma, dall’inizio fino alla fine della lunga serata, guardiamo i genitori, gli zii e i parenti (che a volte non sappiamo nemmeno bene chi sono) che, per una volta, si concentrano; e prendono sul serio; e si divertono pure, a fare e stesse cose che ci piacciono a noi bambini.
E però… a una certa età, diciamo intorno ai miei dieci anni, la perfetta costruzione del Natale comincia a scricchiolare. Noto le prime occhiaie di stanchezza, i primi sorrisi tirati, i rimbrotti per i ritardi… e le prese di giro a noi ragazzi: “allora, nemmeno quest’anno avete beccato il vecchio?”. E la finestra non si apre più, arrivano i bigliettini con su scritto “Dal Babbo Natale della zia Giovanna”… tocca andare a ringraziarla, con il regalo morbido in mano, e baciarla pure. Beccandosi le occhiate soddisfatte degli altri che hanno scampato un regalo moscio.
Ma, soprattutto, diventa chiara una cosa che mi era sfuggita, fino a questo momento. Che i grandi durano una gran fatica.
Non siamo più chiusi in camera, ormai, e li vediamo affannarsi su e giù per casa, con le palle infrangibili spiaccicate in terra, la scala da muovere e il puntale che non si trova… e pile di piatti pesanti, cotture tirate troppo a lungo (“ecco, mi s’è bruciato anche quest’anno!”).
Insomma, questo grande ambaradan del Natale mi si palesa come un regalo, sì, ma avvelenato.
Vedo intoppi, imprevisti. Fraintesi, permali: “possibile che non riuscite ad arrivare in orario nemmeno per Natale?!” e facce lunghe. Poi: “dai, è Natale, vieni qui!” baci e abbracci. Ma con un senso di sforzo che aleggia un po’ su tutto, anche quando l’armonia è ristabilita.
Allora, poi, una volta cresciuta, prendo in mano la situazione: “Sto telefonando a tutti, papà, quest’anno i regali solo ai bambini piccoli. E piatti freddi”. Reazioni stupite, scioccate e poi sollevate: “buona idea”, “finalmente qualcuno ha avuto il coraggio!”.
Poi la famiglia si amplia.
Fidanzamenti, convivenze, separazioni. Figli nati, acquisiti, ritrovati. Famiglie che si formano come atolli nell’oceano. Lontani da noi. Si sfilano i cugini, in carovana dietro le priorità di altri parenti, e il Natale si fa più sottile, più semplice.
Poi anche io prendo la mia rotta e con i miei bambini e il loro padre, lontani da tutto, festeggiamo finalmente il Natale proprio come lo vogliamo. Comodo, pulito, facile.
Leccornie già pronte, solo regali graditi, bambini soddisfatti, musica rinascimentale.
“Il benjamin di casa, in fondo, può portare le stesse decorazioni di un abete, no?”.
Un’altra fatica risparmiata.
“E poi guarda come siamo ecologici!”
“Ma sopratutto tranquilli… senti che pace”.
Insomma, mi trovo un bel giorno di feste natalizie nel mezzo di una casa ordinata e silenziosa.
E penso ai Natali di prima, al frastuono, l’agitazione… le emozioni… i profumi e i sorrisi a ondate. Guardo la mia casa impeccabile, sento il rumore di passi che fanno l’eco, nel corridoio vuoto. Faccio un sospiro nell’aria netta e vedo la mia mano che prende il telefono, vedo le dita comporre un numero. E un altro, e un altro. Amici, vicini di casa. Un unico parente che vive nella stessa città…
“Volete venire? Si, lo so, così all’ultimo… è che ho pensato che sarebbe bello… No, non portate niente, ci penso io. Faccio tutto io. Si, ho voglia di fare fatica, proprio così. Con i regali, certo. Vi aspetto, allora”.
Richiudo e osservo i rametti del benjamin piegati dalle candele. Mi vesto, afferro la borsa e veloce mi avvio verso la porta.
“Ma dove vai?”
“A cercare un albero”.
“A quest’ora?”
“Non mi aspettate, eh? Può darsi che faccia tardi… devo trovare un abete di almeno due metri!”