SU ROMA

 

Su Roma, a una certa ora, soffia un vento delicato, teso, continuo. Sale, insieme al pomeriggio, da dove cala il sole ed è come un segnale che aspettavamo senza saperlo e che riconosciamo subito, appena si ripresenta. Ci dice che la giornata cambia direzione e dalle cose del mattino, la preparazione, l’impegno, si va verso le le conclusioni, verso gli ultimi affanni già lambiti dalle onde basse e lente della sera. È un vento descritto, cantato e benedetto. Perché chi lo sente arrivare prova un cambiamento da qualche parte, dentro. Se ha fretta prende un respiro, se è angosciato si distrae, se è stanco pensa al letto, se è felice gli viene da cantare.

È un vento incessante, sicuro. Dapprima soffia sul mare, saltella fra le onde e gli spruzzi. Poi si spande sulla sabbia e prende i granelli, li rotola, li stende. In uno scatto è già oltre, sulla macchia, fra i pini. Prende gli odori resinosi e asciutti, i piccoli strepiti di ali fra i rami, e li porta oltre, verso le prime case basse, poi gli agglomerati bianchi e infine i villaggi grandi e rumorosi. Li attraversa e prosegue sulla piana, sulle strade, sulle colonne di auto, sulle bancarelle di frutta appese a una striscia di asfalto, sulle prostitute che aspettano con lo sguardo lontano. Vibra fra i cavi dell’alta tensione e prosegue.

Arriva alle barriere architettoniche della metropoli e scivola sul cemento, sui cartelloni, le antenne paraboliche. Si muove fra i balconi e per i tunnel. Passa fra le piazze congestionate, smuove le foglie dei platani. Scorre sui marciapiedi e arriva all’auto, entra nel finestrino, poi nell’abitacolo e sul viso. Un momento e via, esce dall’altro lato per portare altrove le sue carezze. Su una testa, su una faccia, in mezzo a un incontro o fra le mani di chi serve al bar. Finisce sulle figure perse lungo le prospettive grandi e indaffarate della città. Alza un lembo, sposta una frangia, solleva un foglio. Scorre sui gesti distratti di chi si ricompone con leggerezza. Passa fra le ciglia, raccoglie fantasie. Prosegue piazze, parchi e tetti. Nell’ora che ormai sorride verso il tramonto, il Ponentino prosegue oltre, respirando promesse.

 

Pare che in alcuni quartieri non arrivi più, adesso che la città è così avanzata all’interno, e con le strade troppo strette, le case una sull’altra. Così che il Ponentino lì non può farcela. Eppure, altri dicono, anche lì si può sentire.

Nella notte dei tempi se ne andava per la pianura e i colli coperti di larici e pini e incontrava solo lepri e istrici che zampettavano fra i tronchi. Raccoglieva l’odore del timo, lo mescolava con le ginestre, vibrava al ronzio delle api. Poi proseguiva a sfiorare, raccogliere e scomporre altrove.

E ancora adesso, con le case accatastate sulle pietre dei secoli, strati dopo strati di mattoni, di gente, di abiti, voci e movimenti che si intrecciano e si scontrano. Ancora adesso che le vie hanno traiettorie complesse, bloccate dalle auto ferme ad aspettare. Ancora adesso il vento grazia la città e le porta storie lontane di onde, di foglie, di animali e di notti dei tempi.

È stato descritto, cantato e benedetto. Perché chi lo sente arrivare, anche senza saperlo, prova un cambiamento da qualche parte, dentro. Se ha fretta prende un respiro, se è angosciato si distrae, se è stanco pensa al letto, se è felice gli viene da cantare. Se è un artista probabilmente si mette a dipingere, o gli viene in mente la facciata di un palazzo. Il Bernini certamente se ne stava molto all’aperto, durante il ponentino. In piedi, in mezzo a una piazza, poggiava il peso su un’anca e osservava lo spazio del suo tempo, degradato e spoglio. Aspettava il vento e poi si lanciava a immaginare.

E a un musicista, seduto a un tavolino con gli amici a far trascorrere il tempo all’angolo di una via, una qualche volta, gli si erano mossi i capelli sulla faccia, come per il buffetto di uno spirito allegro. Gli era sembrato di sentire una risata partire da qualche parte, in qualche casa, aveva preso subito in mano la chitarra e ci aveva cantato sopra.

È per questo vento che la città ancora vive e regge, fra i pullman che si incastrano per omaggiare il papa e i governanti che si ritrovano, decidono, si sostengono e tramano. Con una specializzazione di millenni unica al mondo, il papa e i governanti, ché nessuna città conserva da così tanto tempo così tanto potere senza mai essere interrotta, spazzata via, riciclata in qualcosa di nuovo. Roma regge senza eccedere, non si rivolta e non evolve. Alcuni fanno illazioni sull’indole indolente, altri ragionamenti sulla storia della società e dell’economia. Ma l’idea senz’altro più vera è che Roma ad un certo punto della giornata sorride, e respira promesse.

Per accorgersene basta trovarsi fuori, all’aperto, possibilmente a piedi e magari in compagnia. Ma non importa. Anche chiusi in una scatola di metallo, bloccati fra gli smog di centinaia di compagni di condanna, sotto il sole che infuoca e grida che stridono, mute, dentro. Anche lì, a un certo momento, arriva il vento lieve e teso, continuo. Passa fra le piazze congestionate, smuove le foglie dei platani. Scorre sui marciapiedi e arriva all’auto, entra nel finestrino, poi nell’abitacolo e sul viso. Un momento e via, poi esce dall’altro lato e va a portare altrove le sue carezze. Su una testa, su una faccia, in mezzo a un incontro o fra le mani di chi serve al bar. Finisce sulle figure perse lungo le prospettive grandi e indaffarate della città. Alza un lembo, sposta una frangia, solleva un foglio. Scorre sui gesti distratti di chi si ricompone con leggerezza, lambito dal sorriso di una vaga, leggera fantasia.